6 – 21 DICEMBRE 2016
Teatro Paesana

Giuseppe Verdino a Palazzo Saluzzo Paesana
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Giuseppe Verdino

L’opera di Giuseppe Verdino (www.giuseppeverdino.eu) non è riconducibile facilmente ad un genere preciso: la sua creatività spazia in diversi campi sconfinando in un’arte eclettica, dinamica e aperta a qualsiasi possibilità. Si può affermare quindi che il suo è un estro duttile che varia e si adatta al momento, utilizzando le risorse disponibili affidandosi all’improvvisazione e invitando lo spettatore a fare altrettanto, seguendolo nel suo mondo bizzarro come farebbe il Bianconiglio di Alice nel celebre romanzo di Lewis Carroll.

Inaugura martedì 6 dicembre alle ore 18.00 negli spazi dell’ex Teatro Paesana e sarà visitabile fino al 21 dicembre (ingresso da Via Bligny n. 2 – Torino) la prima mostra personale dedicata al poliedrico artista torinese Giuseppe Verdino (detto Pepé) con una ampia selezione di opere realizzate lungo un arco temporale di oltre trent’anni nella mostra STORIES OF P (Chapter One).

Lo scorrere della storia – intesa non in senso ampio, quanto piuttosto come raccolta delle esperienze personali che si intrecciano con quelle degli altri individui – è il comune denominatore dei lavori presenti in mostra, nonostante l’apparente incongruenza estetica causata dai diversi mezzi espressivi, tecniche e materiali impiegati. La mostra vuole indagare soltanto parzialmente il poliedrico e vastissimo repertorio di questo eclettico artista, che ha accumulato e messo in “incubazione” nel corso del tempo un’enorme quantità di immagini e oggetti che, come tante tessere di un collage, ci raccontano la sua esperienza di vita.

La serie fotografica “Damaged” è particolarmente rappresentativa della sua visione poetica: si tratta infatti, nella maggior parte dei casi, di fotografie realizzate partendo da negativi di pellicola analogica scattati a partire dagli anni Ottanta e sottoposti ad un periodo di “invecchiamento” dove il fattore temporale ha agito da incognita, determinando la casualità delle immagini finali. Il risultato di questa “stagionatura” appare sorprendente all’occhio, trasfigurando i soggetti attraverso graffi e macchie, saturazioni di colore e sgranature, abrasioni e sfocature che arricchiscono di significato le fotografie, che sembrano come “filtrate” attraverso la memoria. Altre immagini sono invece il frutto dell’usura e della consunzione del tempo, dove le lacerazioni e le cicatrici diventano testimoni silenziose dello scorrere della storia. Appartenenti in gran parte ad una sfera personalissima e risalenti ad un’epoca dove i contrasti sociali e politici riflettevano le tensioni di una Torino che si avviava sul sentiero della post-industrializzazione, queste testimonianze visive risultano essere affascinanti e al tempo stesso enigmatiche come certi ritratti dell’artista tedesco Gerard Richter, in cui sul soggetto o sulla narrazione prevalgono gli effetti pittorici, risultato di una magica metamorfosi dovuta all’instabilità dei sali d’argento o frutto delle ferite accidentalmente occorse alla pellicole attraverso il loro uso. Il loro significato e la loro bellezza emergono da una dimensione irreale e distante, dove i ricordi si sovrappongono mescolandosi in un magma cromatico e luminescente che evoca miraggi onirici e visioni del subconscio. Rispetto a oggi, dove l’immagine digitalizzata è immediatamente visibile e modificabile, queste opere si collocano concettualmente agli antipodi, poiché l’attesa e la casualità del risultato finale rendono gli scatti irripetibili, attraverso pratiche che non trovano paragone nel mondo dell’arte contemporanea. A segnare emblematicamente la conclusione cronologica di questa serie vi è un’unica immagine digitale “danneggiata” risalente al 2007, un ritratto realizzato con una macchina che prima di guastarsi in maniera definitiva ha catturato un ultimo istante di vita, mutandolo in una visione non più pittorica, come con le pellicole, ma grafica ed elettronica, segno del cambiamento dei tempi e dell’evoluzione della nostra società.

“Aka no origami” è una installazione che trae origine dalla passione adolescenziale dell’artista per questa antichissima forma d’arte giapponese, dove un foglio – solitamente di carta – viene piegato più volte fino ad assumere la forma di un oggetto, di un animale o, come in questo caso, di un fiore. La magia della trasformazione di una superficie piana in tridimensionale affascina la precoce creatività dell’artista portandolo nel 1984 a inventare, partendo da un modello classico, un tipo di origami che nella sua semplice complessità risulta innovativo ed unico. In occasione di questa mostra tale origami è stato realizzato in acetato trasparente in trecento esemplari che vanno a formare una installazione site-specific di grande impatto visivo che ricorda certe creazioni del designer belga Daniel Ost.

Innumerevoli piccole sculture, realizzate a partire dal 2004 ad oggi con materiali di scarto, formano il variegato universo di “Galactic Zoo”: esse sono il prodotto di un accumulo compulsivo e di procedure di riciclaggio comuni per molti aspetti alle correnti artistiche del Novecento, dal Dadaismo all’Arte Povera, passando attraverso l’Art Brut e i Fluxus. Caratterizzati da nomi ironici e talvolta spiazzanti, i personaggi di Galactic Zoo costituiscono l’aspetto più scanzonato ed artigianale del lavoro artistico di “Pepè” che, come una sorta di novello Dr.Frankenstein, genera da piccoli rifiuti di cancelleria e bricolage degli assemblage di piccoli mostri, insetti robotici che sembrano uscire dalle visioni dei racconti di Isaac Asimov. Nelle figurine dall’aspetto vagamente punk si riconosce chiaramente il tratto grafico dell’artista, visibile anche in un altro gruppo di lavori realizzati mediante sabbiature su vetro o specchio e esemplificati in mostra da un lavoro del 2009 intitolato Dune, scaturito dall’amicizia con l’artista pugliese Peppino Campanella.

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